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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Giugno 2021

 Su trigu e su pani de is anticus

La coltivazione del frumento risale ad un'età molto remota. Da alcuni ritrovamenti fossili sembra che qualche tribù dell'Europa preneolitica abbia cominciato la coltivazione del frumento ed è accertato che la cerealicoltura preistorica nelle regioni dell'Europa occidentale si sviluppò nella fase avanzata di transizione fra l'età paleolitica e quella neolitica (mesolitico, 10.000-8.000 a.C.). Testimonianze risalenti a circa 10.000 anni fa e reperite nella zona dei laghi svizzeri rivelano come sin d'allora l'uomo avesse sviluppato la lavorazione del pane.

 

In Palestina sono stati rinvenuti attrezzi agricoli per la mietitura, del periodo che va dall'8.000 al 3.000 a.C. (neolitico). Residui di frumenti coltivati sono stati scoperti nelle caverne neolitiche del Belgio. In Italia la coltura cerealicola nell'età neolitica è accertata dai ritrovamenti delle palafitte lacustri attorno alle rive meridionali dei laghi alpini e nel basso piano padano. La prima testimonianza scritta, dove si parla di pane e di birra, la ritroviamo nel codice di Hammurabi, un sovrano della prima dinastia di Babilonia, vissuto intorno alla metà del 1.700 a.C. Sembra che, ad iniziare per primi la coltivazione del grano, siano stati gli antichi abitatori della Siria e della Palestina e da qui passò poi in Egitto dove già si produceva l'orzo. Ben presto fu preferito il grano perché consentiva una migliore panificazione, al punto di produrre diverse qualità di pane di farina bianca per le classi superiori e di orzo o pelta (un tipo di cereale oggi estinto) o durra (pianta simile al miglio, coltivata in Asia e in Africa) per le classi  meno agiate.

Anche gli Ebrei, durante la loro prigionia si nutrivano di pane nero non lievitato detto pane azzimo,  (così come scrive  Francesco Bonomi nel Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana), pane fatto senza lievito, che gli ebrei sogliono mangiare durante i sette giorni della grande solennità di Pasqua, già istituita per eternare il passaggio dell’angelo sterminatore sull’Egitto. Sempre in Egitto sono stati ritrovati, in alcune tombe lungo il corso del Nilo, affreschi che ritraggono la coltivazione del grano, la raccolta, la macinazione, la miscelatura e la cottura al forno. In una tomba è stata ritrovata una forma di pane a focaccia piatta di circa 3.500 anni fa. Sembra che siano stati gli egiziani a scoprire che lasciando fermentare l'impasto di farina si sviluppa gas capace di far gonfiare il pane. Anche gli antichi Greci e Romani furono grandi consumatori di pane.

Durante il periodo di Roma capitale del mondo, il pane è stato l'alimento base per la popolazione. Il primo negozio di pane fu aperto a Roma nel 150 a.C., proprio a Roma le arcaiche confraternite di fornai erano chiamate “Pistores”. Il pane prodotto era del tipo azzimo (mazzero, così si chiamava anticamente il pane mal lievitato e duro),  tanto è  vero che era secco, cotto due volte (biscottato), preparato in questo modo per poter durare a lungo. Questa tecnica di panificazione veniva utilizzata dalle genti  del Medio Oriente, che lo cuocevano dando al pane una forma rotonda e piatta, simile al pane che oggi in Sardegna chiamano - pistoccu o carasau -, anche quest’ultimo oggi è di forma rotonda e più sottile del - pistoccu - fresa -, che può essere anch’essa di forma rotonda, ma più abitualmente è di forma rettangolare.

In realtà, tale pane di antica fattura, ha rappresentato il sostentamento per le famiglie dell’ogliastrino, preparato in differenti versioni e mescolanze di farine di grano sardo e, in base alla classe sociale con aggiunta di farina integrale - cruschello - orzo. Un pane analogo,  lo cita Omero nell’Iliade nel libro nono sortendo così: “… e tolte alfine dagli alari le carni abbrustolate sul desco le posò; prese di pani un nitido canestro e, su la mensa distribuilli”.

Nella Roma antica, ben presto il pane sostituì una polenta fatta con farina di cereali, chiamata “puls”, che era usata in tutta Italia. Di arte della panificazione si poté parlare più tardi quando, dopo le Vittoriose guerre in Oriente, i Romani portarono a Roma numerosi schiavi fornai che svelarono i segreti della panificazione. In un primo tempo i forni furono sfruttati dai soli patrizi ma poi vennero aperti quelli pubblici. Dopo la caduta dell'Impero Romano si tornò a fare la panificazione casalinga.

Un grande interesse per questo alimento si ritrova anche nel Medioevo, infatti i signori feudali imponevano ai propri sudditi di utilizzare, per macinare il grano e per far cuocere il pane, solo i propri mulini ed i propri forni. Ben presto però il pane quotidiano diventò un cibo raro ed incominciò ad apparire lo spettro della fame. Nel 1348, l'anno della peste, sembrò la fine del vecchio mondo, con la classe contadina avvilita e affamata si fermò la storia del pane.

Durante il Rinascimento, con tutto il fiorire delle arti e dei mestieri, riprese l’importanza della professione dei fornai che iniziarono a utilizzare tecniche innovative e macchine simili a quelle ritrovate negli scavi di Pompei. Successivamente nei momenti di crisi, i fornai furono considerati accaparratori che rivendevano le scorte a prezzi disonesti diventando affamatori del popolo, come riporta il Manzoni nei Promessi Sposi rievocando la sommossa del pane. Ma reazioni popolari ci sono state anche in varie epoche, contro le imposte sulla panificazione e la tassa sul macinato.

Veri e propri tumulti si sono verificati in Val di Sieve, in Romagna e in Emilia in seguito all'introduzione della tassa sul macinato decisa dal governo italiano nel 1868 poi abolita nel 1880. Il pane bianco, fino alla Rivoluzione Francese, era un alimento destinato ai ricchi. La povera gente si nutriva di pane nero, un pane che, secondo i dietologi è più sano e nutriente di quello raffinato e lavorato che oggi si può trovare nelle più moderne panetterie.

Ogni nazione, ogni regione, o meglio ancora, ogni paese ha le sue tradizioni. Il pane di Ferrara, ad esempio è diverso da quello di Parigi o di Vienna ed anche le “michette” di Milano sono ben diverse dal pane toscano senza sale, o dai grandi pani pugliesi o del - civraxiu - di Sanluri in Sardegna, sino a quelli dell'Italia meridionale.

Da sempre il pane è l'alimento principale dell'uomo, difficile trovare una tavola dove non accompagni i nostri pasti. Fin dall'antichità è stato prodotto con diversi tipi di cereali e tuttora, in diversi Paesi del mondo viene lavorato secondo le tradizioni del luogo. Avviata la procedura di raccolta dei vari cereali, pulitura e macinatura si sono messe a punto le varie tecniche per ridurlo in farina. All'inizio i cereali venivano pestati nei mortai e la farina, impastata a mano con l'acqua. Poi arrivarono i mulini ad acqua la cui forza azionava delle grosse macine di pietra o venivano utilizzati animali da soma e prima ancora la forza delle braccia umane. La produzione di pane più abbondante e popolare si ricorda al tempo dei Romani, essi cuocevano il proprio pane in casa impastandolo direttamente con acqua e farina, in quanto il lievito non era ancora conosciuto. Sembra che siano stati gli Egizi per primi a scoprire per caso la lievitazione dal momento che lasciavano l'impasto all'aria per cuocerlo il giorno dopo, altre fonti sostengono siano stati gli ebrei a scoprire la lievitazione durante l’esodo.

I greci invece furono i primi ad aggiungere altri prodotti come ad esempio il latte o alcune spezie. Nel periodo feudale invece, il pane era ad esclusivo uso e consumo dei signori, mentre la popolazione in pieno periodo di carestia ricorreva all'utilizzo di altri cereali come appunto il farro, l'orzo, la segale, le ghiande in Sardegna, eccetera. Si arriverà al Rinascimento per l'introduzione del lievito di birra nella panificazione e ai giorni nostri si stanno riscoprendo quei cereali una volta considerati poveri, per apprezzare tutte le loro proprietà ed avere dei prodotti di grande qualità.

Ingredientis:

g 400 di farina di grano duro di Sardegna, g 400 di farina di semola rimacinata sarda, g 200 di farina di grano integrale, 1 patata, g 20 di sale fino marino, g 150 di lievito madre sardo - su framentu - imbonadori -, g 550 d’acqua di sorgente o minerale naturale, farina per lo spolvero q.b. 

Approntadura:

per prima cosa, lessa la patata con la buccia, non appena risulterà tenera, pelala, passala allo schiacciapatate e metti il ricavato dentro ad una scodella. Fatto, setaccia le tre farine sul ripiano della madia insieme al sale, poi forma una fontana e al centro tuffaci il lievito precedentemente fatto stemperare con poca acqua tiepida prelevata  da quella che hai in dotazione, la patata passata, il resto dell’acqua sempre fatta intiepidire e impasta il tutto energicamente per mezz’ora, fino a ottenere un composto liscio e malleabile. Terminata questa operazione, suddividi l’impasto in tanti panetti che somiglino a un fico d’india (circa cento grammi cadauno) e man mano che li prepari accomodali dentro a un recipiente - impastera - corbula  - crobi - canestro - canisteddu -, rivestito con una tovaglia di lino infarinata e coperta con una coltre di orbace (in sardo - orbaci - dall'arabo al-bazz, stoffa, tela), quindi lasciali rilassare per un quarto d’ora circa. Trascorso il tempo indicato, appiattiscili con l’aiuto di un matterello - tùtturu - sul piano di lavoro infarinato e conferiscili una forma rettangolare lunga venticinque centimetri, larga dodici e spessa mezzo centimetro ognuna, oppure quella che preferisci tu (rotonda - ovale - quadrata). Finito, inizia a  frizionare la pasta con i polpastrelli - faghere in poddighe -, così facendo le sfoglie rimarranno ondulate e ruvide. A questo punto, sistemale su una spianatoia infarinata, coprile con una tovaglia e lasciale lievitare tre ore in ambiente tiepido e privo di correnti d’aria. Allorquando il periodo di lievitazione sarà finito, cuoci le sfoglie (nel numero che ci stanno dentro al forno di casa, qualora non possiedi quello a legna) in forno già caldo a 250°. Appena le sfoglie si gonfieranno, estraile dal forno, con una lama dividile in due e man mano che lo fai, disponile una sopra l’altra con la parte interna all’insù, lasciandole raffreddare. Una volta terminata la prima cottura, ripassale nel forno ben caldo, giusto il tempo che occorre per farle biscottare e allo stesso tempo dorare in superficie.

 

***

 

 

 

 

Cravatteddas a sa campidanesa a ischiscionera

 Il vanto dei sardi è quello di essere un popolo arcaico, umile, orgoglioso di dare seguito alla propria cultura, alle antiche usanze, alle proprie tradizioni e alla cucina agropastorale, quella dei contadini, fatta di ingredienti genuini, che da sempre è divulgata in tutto il mondo attraverso l’emigrazione ed i circoli culturali sardi sparsi in tutto il pianeta.

Ingredienti come il grano, coltivato fin dai tempi dei Romani e che ancora oggi risulta essere uno  dei migliori in assoluto. Nella zona della Marmilla si coltiva una varietà di grano duro pregiato: il Senatore Cappelli (antica cultivar di semola di grano duro che deve il suo nome all'omonimo senatore abruzzese). Con la farina ottenuta, oltre alla preparazione del pane e dei dolci, si ricava quella pasta che nell’Isola costituisce l’alimento principale di ogni pasto e, rispetto alle altre paste, è considerata la preferita dalle persone soggette a intolleranze alimentari.

In Sardegna sono molti i formati di pasta prodotti, fra i tanti ci sono - is cravatteddas - farfalline cosi come le chiamava mia mamma, grande estimatrice di questo formato. Questa vivanda particolarmente economica nasce in Liguria, molto probabilmente nel pastificio Agnesi di Pontedassio 1824, con una produzione di 120 quintali di grano macinato al giorno, tutti trasformati in vari formati di pasta, farfalline comprese. Ma c’è anche da dire che le farfalle - gasse, dal nodo dei marinai, le preparavano in casa le mogli dei navigatori, per scacciare le anime maligne, in quanto, annodando la pasta (da corda annodata), nelle credenze popolari liguri c’era  la possibilità di riportare a galla i propri mariti. Ecco perché, a seguito dell’invasione ligure, gli isolani da buoni - licoinàrgius - buongustai che sono, non hanno impiegato molto ad adottare questo tipo di pasta che si presta ad essere condita con intingoli intriganti e succulenti, a secondo della zona  e delle tradizioni locali.

Ingredientis:

per la pasta: g 400 di  farina di  grano duro sardo, acqua e sale q.b. per l’intingolo: 1 cipolla  di  - sa Zeppara - (zona della Marmilla), un ciuffo di prezzemolo, 4 pomodori  secchi  ben dissalati, g 30 di strutto suino, 1 spicchio d’aglio, 1 foglia di lauro, g 250 di impasto di salsiccia fresca, vino bianco secco, 400 di polpa di  pomodori ridotta a poltiglia, 1 ciuffo di  basilico, zafferano San Gavino, g 80 di  ricotta cotta al forno, olio extravergine d’oliva, sale e pepe  di mulinello q.b.

Approntadura:

prepara - is cravatteddas a sa campidanesa in sa ischiscionera - farfalle alla campidanese dentro al tegame nel seguente modo: disponi  la farina a fontana su un piano di lavoro e al centro tuffaci una presa di sale e tanta acqua quanta ne occorre per ottenere un impasto liscio e malleabile che lascerai riposare coperto in luogo fresco per mezz’ora. Nel mentre, trita molto finemente la cipolla con i pomodori secchi, il prezzemolo e il battuto ottenuto, ponilo a rosolare dentro a un capace recipiente di terracotta - tianu mannu -, con lo strutto e un giro d’olio, dopo cinque minuti aggiungi la salsiccia, l’aglio, il lauro e mezzo bicchiere di vino. Evaporato, unisci la polpa di pomodori, il basilico e prosegui la cottura dolcemente per tre quarti d’ora circa. Intanto che l’intingolo cuoce, tira a sfoglie non troppo  sottili la pasta, da queste con l’aiuto di una rotella dentata, ritaglia delle strisce larghe cinque centimetri per la lunghezza che viene, quindi  con una rondella liscia (quella che usi per tagliare la pizza va benissimo), tagliala pezzi di 4 centimetri, infine pizzica con il pollice e l’indice i lati lisci, formando cosi le classiche farfalle - cravatteddas - e man mano che le prepari, allargale sulla spianatoia infarinata ad asciugare. Terminata questa operazione, regola il sapore di sale del sugo, impreziosiscilo con una bustina di zafferano, una generosa macinata di pepe e portalo a cottura. Arrivati a questo punto, lessa la pasta in abbondante acqua salata a bollore e quando al dente, scolala direttamente nel recipiente del condimento, aggiungi la ricotta grattugiata e padella velocemente il tutto, giusto il tempo che occorre per fare insaporire gli ingredienti. Servi - is cravatteddas - immediatamente. Vino consigliato: Monica di Sardegna fermo, dal sapore gradevole, morbido, vellutato e asciutto.

 

 

 

 

 

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